
SERGIO ROMANO – CORRIERE DELLA SERA.
Dalle accuse di collaborazionismo con Hitler alla riscoperta polemica dell’orgoglio elvetico. Un saggio riapre la discussione sulle responsabilità della Confederazione al tempo della Shoah. E ripropone il valore della neutralità.
In un libro sulla Svizzera nella storia del Novecento, Jean-Jacques
Langendorf ricorda che il processo alla Confederazione cominciò verso
la metà degli anni Novanta con un brusio di voci che rimbalzavano da
un Paese all’altro, da un giornale all’altro. Nell’aprile del 1995 la
stampa israeliana lasciò intendere che vi erano nelle banche svizzere
40 o 50 milioni di franchi, depositati su conti numerici aperti prima
della guerra da ebrei dell’Europa centrale. Pochi mesi dopo, il Wall
Street Journal mise in discussione, in particolare, la correttezza
della banca Julius Baer di Zurigo. Di lì a poco scese in campo il
Congresso mondiale ebraico, presieduto allora da Edgar M. Bronfman,
magnate canadese degli alcolici e generoso finanziatore di Bill
Clinton nelle elezioni presidenziali di pochi anni prima. Qualche
tempo dopo entrò in scena Alphonse D’Amato, senatore dello Stato di
New York, uno dei più tenaci paladini degli interessi israeliani nel
Congresso degli Stati Uniti. Da quel momento il brusio divenne un coro
di voci accusatorie.
Chiamata in giudizio dall’opinione pubblica internazionale, la
Svizzera dovette rispondere ad alcune imbarazzanti domande. Perché
aveva fornito materiale bellico al Reich tedesco durante il conflitto?
Perché aveva respinto gli ebrei che cercavano rifugio nel suo
territorio? Perché la sua Banca centrale aveva comprato lingotti
tedeschi confezionati con oro sottratto alle vittime del genocidio
ebraico? Perché le sue banche avevano trattenuto nei loro forzieri il
denaro depositato dalle vittime dello sterminio? Perché le sue
compagnie d’assicurazioni non avevano pagato agli eredi il premio
delle polizze contratte dai padri e dai nonni?Il processo durò sino
alla fine degli anni Novanta e fu per la Svizzera una sorta di via
crucis.
Dovette sostenere l’offensiva del World Jewish Congress e del
senatore D’Amato e accettare la nomina del Comitato Volker (ex
presidente della Federal Reserve) <<per verificare le ricerche delle
Banche Svizzere sui beni depositati in Svizzera nella II Guerra
mondiale>>. Dovette pagare indennizzi per un miliardo e 800.000
franchi e sottoporre se stessa all’esame e al giudizio di una
commissione d’inchiesta (la Commissione Bergier) da cui ricevette
l’equivalente di una condanna con la condizionale. Dopo essere stata
per molto tempo, agli occhi dell’Europa, un modello di virtù
repubblicane e civili, la Svizzera era divenuta una sorta di paria
delle nazioni, continuamente costretta a giustificarsi e a espiare.
Da allora il vento sembra avere cambiato direzione. La stampa, gli
studiosi, i magistrati, gli uomini politici riconoscono che molte
accuse erano esagerate e ingiuste, che gli inquisitori non tennero
alcun conto dei pericoli che minacciarono in quegli anni l’integrità
della Confederazione, che nella campagna antielvetica vi fu anche una
velenosa combinazione di demagogia, opportunismo politico, affarismo.
Un esempio fra molti: i censori hanno dimenticato di rilevare che il
numero dei rifugiati ebrei accolti dalla Svizzera e dagli Stati Uniti
durante la Seconda guerra mondiale fu lo stesso: circa 21.000. Quale
fra i due Paesi era stato più generoso?
Il libro di Langendorf, pubblicato dalle edizioni Settecolori nella
traduzione di Maurizio Cabona, è probabilmente la più efficace
<<arringa per la difesa>> apparsa in questi anni. L’autore è un
ginevrino di padre tedesco, viaggiatore, romanziere, studioso di
problemi storici e strategici, personaggio stravagante, nel senso
letterale della parola, difficilmente classificabile nel panorama
della letteratura europea. Ed è anche, a giudicare dagli argomenti e
dalla documentazione con cui difende il suo Paese, un eccellente
polemista.Fra le molte osservazioni intelligenti di questo libro ve
n’è una che non concerne soltanto la Svizzera e che può servire a
comprendere la cultura europea degli ultimi anni, dal crollo del
comunismo a oggi.Langendorf osserva che nel campo degli accusatori vi
furono molti svizzeri e parecchi membri dell’intellighenzia nazionale,
fra cui il più chiassoso fu un sociologo molto impegnato, Jean
Ziegler. Molti di essi erano stati comunisti, terzomondisti,
filocinesi o filocubani. Avevano trascorso la loro vita in attesa del
grande evento rivoluzionario che avrebbe messo fine, una volta per
tutte, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ma la caduta del muro,
il crollo dell’Urss e la conversione della Cina al capitalismo li ha
improvvisamente privati del loro sogno. Il risultato di questa
amputazione è una sorta di rancore permanente per il loro Paese. La
fiduciosa attesa del futuro si è trasformata in odio del passato. Dopo
avere sognato di costruire un <<mondo migliore>>, questi rivoluzionari
invecchiati e inaciditi passano gran parte del loro tempo a
distruggere quello che li ha allevati e nutriti.
Definito in questi termini, il fenomeno concerne quasi tutti i Paesi
europei e in particolare la generazione del ’68. La rivoluzione
studentesca fu anzitutto un processo ai padri, vale a dire alla
generazione che aveva vissuto le tragedie della prima metà del secolo
e sapeva quanto fosse pericoloso continuare il gioco delle reciproche
accuse. Mentre i genitori avevano capito che occorreva soprattutto
dimenticare e ricostruire, i figli del ’68 li accusarono di essere
stati, se non addirittura fascisti, egoisti, opportunisti, privi di
qualsiasi ideale. Le denunce ebraiche della Svizzera furono soltanto
un episodio delle tante guerre contro il passato che vennero scatenate
da allora nei Paesi dove la rivolta studentesca assunse una dimensione
politica. Una parte della società francese rimise in discussione il
comportamento della nazione all’epoca di Vichy. Una parte della
società tedesca vide nei cristiano-democratici di Adenauer, e persino
nei socialdemocratici di Willy Brandt, una versione morbida del
nazismo. Una parte della società italiana sostenne che il fascismo
sopravviveva nei partiti borghesi e che occorreva scatenare contro di
essi una <<nuova Resistenza>>. Quarant’anni dopo, la generazione del
’68 ha perduto la sua partita rivoluzionaria, ma conforta e assolve se
stessa continuando a sostenere che il passato dei padri è
infinitamente peggiore dell’improbabile futuro in cui aveva riposto le
sue speranze.
– Il libro: Jean-Jacques Langendorf, Neutrale contro tutti. La
Svizzera nelle guerre del 900, Edizioni Settecolori, euro 18