GIAMPIERO MUGHINI – LIBERO.

Stenio Solinas apparteneva a una generazione intellettuale che negli anni Settanta era stata morsa al cuore dalle passioni della politica. Era stato a destra in tempi in cui all’università di Roma successe un maremoto il giorno in cui si stava laureando con una tesi su Giuseppe Prezzolini e dunque ti potevi aspettare che passasse in qualche modo alla cassa ora che la destra politica e intellettuale è stata pienamente sdoganata. Ebbene, da almeno dieci anni a questa parte Solinas ha deciso di strainfischiarsene di tutto salvo delle cose che ama. Molte, come attesta questo libro sontuoso, “Vagamondo”, che gli ha appena pubblicato le Edizioni Settecolori un piccolo editore di destra al quale Solinas è stato fedele negli anni. Da quando, più di vent’anni fa, Solinas si inventò il titolo e la costruzione architettonica di un libro, “C’eravamo tanto a®mati”, che a suo modo è un piccolo classico del nostro tempo recente: era la prima volta che giornalisti e scrittori di sinistra e di destra convivevano a ragionare assieme e guardarsi negli occhi senza un ghigno di odio e di disprezzo.
Le cose amate. Nel suo libro Solinas ha raccolto il lavoro, i viaggi, le squassanti curiosità del suo ultimo decennio di lavoro intellettuale e giornalistico. Figlio che non si rinnega del Novecento, è andato alla cerca di scrittori, mappe, cimeli, biblioteche, cimiteri che raccontino le traiettorie ideali e le tragedie di questo secolo su tutti rovente e drammatico. Corazzato nel suo orgoglio e nella sua solitudine, non s’è negato un “altrove” che sia uno. A fare da baricentro è la sua nuova città di elezione, Parigi, dove credo che adesso trascorra la massima parte del suo tempo. Lui che è nato a Roma e che era divenuto un cittadino milanese al tempo del suo impegno professionale alla “macchina” prima dell’ Europeo e poi del Giornale. Finché la redazione di un giornale non era più l’abito che gli calzava meglio e Solinas non si è dato come impegno professionale quello di “vagare” per il mondo delle sue passioni culturali. Alla ricerca dei perdenti e degli snob di gran talento, di quelli che avevano cercato molte cose e tentato molte avventure per poi trovare anch’essi una solitudine talvolta sontuosa e talvolta nemmeno tanto.
In fatto di solitudini e di fallimenti e di identità complicate e contraddittorie, Solinas è diventato un cane da tartufi. A raccontare di Pierre Drieu La Rochelle o di Jorge Luis Borges, di Marlene Dietrich o del fotografo Robert Capa, di Ernest Hemingway o di Romain Gary, di Serge Gainsbourg o di Lord Byron, di Leni Riefenstahl o di quelli che inventarono “il Sessantotto” nella Fiume dannunziana del 1920, lui non si perde un gesto né uno spasmo. Quelle loro contraddizioni e quei loro fallimenti li ama così tanto da indurlo a seguire quei personaggi passo passo, anche quando vanno in gabinetto. Protagonisti di un’epoca irriproducibile perché mai più ce ne sarà un’altra che fornirà tali e tanti copioni da interpretare, sotto forma di rivoluzioni vere o presunte, di maremoti sociali e culturali, di scontri alla morte per i motivi ideologici i più pazzeschi. Le due guerre mondiali, la guerra di Spagna, il Vietnam, la guerra d’Algeria che spaccò in due la Francia, i turchi che ammazzano gli armeni e viceversa, i patrioti irlandesi che si lasciano morire di fame pur di marcare il loro disprezzo per l’Inghilterra, i soldati italiani del 1920 che sparano sui seguaci italiani di Gabriele D’Annunzio che volevano che la costa dalmata restasse all’Italia.
E siccome Solinas non è più né di destra né di sinistra né di centro, e siccome disprezza le contese puramente ideologiche e la politica partitante in cui i partiti ambiscono alla morte di guadagnarsi territori e consensi, ne viene fuori che il suo racconto è di una freschezza totale. Mai prevedibile, mai banale, mai “politicamente corretto” in un senso o in un altro, mai un aggettivo o una definizione che voi conoscevate a memoria per averla sentita mille volte.
Come in quella pagina 270 che molto gli invidio e in cui Solinas scrive così:«Ogni qualvolta torniamo con la mente a quando fummo in sintonia con un’ideologia e la sua manifestazione, ci accorgiamo che in realtà si affollano davanti agli occhi spezzoni di amicizie, fantasmi di amori, agnizioni e scoperte, memorie di libri, immagini di film, panorami e paesaggi con figure. Sempre più la politica si rivela un corteo di illusioni perdute e sempre più ci sorprendiamo a pensare che se invece di spiegarci la vita, di razionalizzarla e di interpretarla, avessimo provato a viverla, forse avremmo conosciuto la pienezza di una dolorante felicità». Parole similari le avrò scritte e pronunciate decine di volte, innanzi a platee che mi rimiravano esterrefatte da tali bestemmie. Ma non credo di averle mai scritte così perfette com’è riuscito a Solinas.
E valga per tutti l’episodio di lui ventenne o poco più che era sì a destra ma che non era un babbeo o un fanatico di destra, e perciò gli piaceva il jazz, e perciò la volta che voleva fare colpo su una bella ragazza la invitò in quel tempio romano del jazz che negli anni Settanta stava a Largo dei Fiorentini. Lui tutto contento di ascoltare del jazz, felice di avere accanto quella ragazza con la quale tutto procedeva al meglio. Finché il direttore del locale non si presentò sul palco a dire che quella sera ci sarebbe stata una sorpresa, che quella sera Romano Mussolini avrebbe suonato al pianoforte. La ragazza ebbe un soprassalto, e chiese a Solinas se aveva sentito bene il cognome del pianista. E siccome a tutto c’è un limite, Stenio le disse chesì, che il pianista era il figlio del Duce e che era il più grande jazzista italiano. La ragazza scattò in piedi, «Ma che mi hai portato in un covo di fasci?», e se ne andò di brutto. Tempi lontani del Novecento. Eppur così vicini.

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