RICCARDO PARADISI – LIBERAL.

Stenio Solinas è uno degli ultimi grandi inviati del giornalismo italiano. Tra i pochissimi capaci di restituire di un viaggio, di un luogo – che sia un grande albergo europeo o il selvaggio deserto africano – le atmosfere che vi si sono sedimentate e i pensieri che gli uomini vi hanno lasciato nel tempo. Solinas ora pubblica per le edi- zioni Settecolori di Manuel Grillo Il Vagamondo che è molto di più di un libro di viaggi, paesaggi, luoghi, incontri e snobismi, come annuncia il sottotitolo di copertina. È un’autobiografia esistenziale e intellettuale che ha il respiro dello sguardo vasto e profondo, di un io che ha saputo sfuggire intimismi e cerebralità aprendosi alla realtà del mondo: l’unico vero registro del genere fantastico come insegnava Borges. Ne vengono fuori scenari, scorci, storie raccontati con uno stile da applausi. Che ci racconti la Pampa di Don Segundo o i bazar di Kabul, la Fiume di D’Annunzio o una mostra su Napoleone al Louvre, Solinas ha la capacità di disegnare, scrivendo, dei quadri animati. Vagamondo è un libro sul piacere del viaggiare e il gusto del raccontare ma anche «sui momenti particolari che sanciscono un cambiamento, segnalano una svolta, raccontano un come eravamo che non tornerà più». È questo stato di sospensione, questo particolare sguardo alimentato dalle letture di Hemingway, di Fitzgerald, di Morand, che indica a Solinas la cifra estetica ed esistenziale cui sentirsi iscritto per affinità e vocazione. La vita come avventura, l’avventura come azione, l’azione come estetica e la letteratura – che è una cosa seria – sopra tutto: «Naturale corollario a questo sentimento dei luoghi e del tempo», scrive ancora Solinas – «sono i ritratti di chi, con la propria vita, con la propria scrittura, accese in me la fiamma dell’interesse e dell’emulazione: scrittori, viaggiatori come de Manfreid e Burton, romanzieri come Hemingway, Drieu e Gary, avventurieri come Lawrence e Malraux, intellettuali inquieti come Koestler». A Solinas, per un suo tratto tranchant, non piacerebbe leggere che anche lui, come gli scrittori che cita, ha acceso tra i migliori delle generazioni che sono venute dopo la sua la fiamma dell’ammirazione e dell’emulazione; eppure dovrà farsene una ragione perché non si può vivere all’altezza dello stile che ci si è dati senza che poi qualcuno non ti prenda sul serio e magari ti adotti come fratello maggiore. Magari dopo avere misurato la distanza tra un dandy votato all’azione come lui e il pullulare di rigattieri del giornalismo e della cultura, per non parlare di quelli della politica, che nella società di massa che tutto macina e livella sentono d’elevarsi sull’umano genere per una barca a vela: «Lo snob moderno che si ritiene parte degli happy few», scrive Solinas «vuole il successo, il divertimento, il riconoscimento, la notorietà…Per questo ancora agli inizi del Novecento cosa fosse uno snob era sotto gli occhi di tutti: un sine nobilitate, in sostanza un poveraccio».

Ecco, i precetti del dandy sono diversi: «Per essere eleganti non si deve essere notati, niente colori violenti, massima pulizia e attenzione ai particolari. Interiormente bisognava essere ironici e impassibili, magari annoiati ma non tristi». Dandy è Lord Brummel, naturalmente, dandy è Paul Morand, «il cantore della Parigi tra le due guerre», dandy è Pierre Drieu La Rochelle, «la cui unica ambizione consiste nel non averne». Il dandismo di Stenio Solinas non lo misuri solo dall’abbinamento di una cravatta, o dalla scelta di un paio di scarpe – che pure sono cose essenziali – piuttosto da alcuni gesti magistrali.

Come quella volta che a un bestiale “Solinas chi?” detto per dispetto in un’intervista da un caporione della destra – oggi in disgrazia ma allora in ascesa per diventare ministro (e lo divenne) – il nostro rispose che siccome qualche libricino lo aveva scritto, uno ne avrebbe prestato all’onorevole, così, per farsi da lui conoscere. Concedendogli di tenerlo pure un anno, considerato che sei mesi gli sarebbero stati necessari per leggerlo e altri sei mesi per capirlo. Solinas, per battute come questa, che è un capolavoro, s’è procurato inimicizie là dove di solito si vanno a cercare coperture e prebende. Ma non è sgarbismo, coazione alle provocazione da maudit di professione: in quelle cose lì c’è sempre un’esibizionismo irrisolto. Qui agisce un altro codice. «Su una parete della mia camera c’era un poster con un’immagine di Clark Gable. Nel poster Gable era immortalato nel momento in cui, il suo personaggio, l’avventuriero Rhett Butler, sta giocando a carte nel carcere di Atlanta dove è prigioniero… Ha sulle spalle una specie di mantella, all’angolo delle labbra un sigaro, è elegantissimo e divertito come se fosse in un club invece che in galera». Nel Rinascimento questo atteggiamento si chiamava sprezzatura, che è qualcosa di meno e qualcosa di più della iattanza. Per capirlo soccorre un’altra scena di Vagamondo. Correvano gli anni Settanta quando Solinas entra in un locale romano insieme a una ragazza. Un attrice del teatro d’avanguardia. In programma quella sera c’è un concerto di jazz di Carletto Loffredo e Gil Cuppini «Lo spettacolo era assicurato, l’atmosfera era calda e Francesca pure…». Poi succede che a sorpresa viene annunciato il concerto di Romano Mussolini. «”Romano chi?” mi fece Francesca con tono gelido, “Mussolini”, risposi io che avevo capito l’antifona…”Come il duce”? Insistette lei nervosa.“Sì, è il figlio”, mi irrigidii a mia volta “e guarda che è il più grande jazzista italiano”.“Ma dove cazzo mi hai portato, in un covo di fasci?” Esplose. “Sei una povera stronza fu la mia replica”, lei si alzò e se ne andò. Rimasi seduto e sentii una mano poggiarsi sulla spalla: “Grazie per avermi definito il più grande. E grazie per essere rimasto”. Aveva un sorriso melanconico e il testone del padre, ma non ho mai sentito suonare nessuno come suonò lui quella sera. “Quando Romano è in forma non c’è scopata che tenga”mi disse Pepito, il proprietario del locale, per consolarmi. Allora mi sembrò che avesse ragione».

Del resto era proprio Rhett Butler/Clark Gable a dire in Via col vento di avere sempre avuto un debole per le cause perse quando sono proprio perse. L’uomo è il suo stile.

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