FELICE MODICA – GAZZETTA DI PARMA.

I grandi libri hanno sempre più di una chiave di lettura, condizionata anche dall’età e dalla formazione culturale di chi legge. Kim e tutto Kipling, ad esempio, per un ragazzo italiano degli anni Sessanta/Settanta, formatosi sulle “strenne Corticelli” della “Mursia”, sono stati l’avventura, il gusto per l’esotico e l’ignoto: insomma, un Salgàri scritto meglio…
Per un inglese come Peter Hopkirk, nato nel 1930, che “ha frequentato una scuola pubblica e ha servito nell’esercito inglese” (e quindi può sopravvivere a tutto…), sono stati invece il sogno di un’av – ventura che avrebbe potuto concretizzarsi, sol che lo si fosse voluto, andandosene, una volta diventati adulti, a spasso per il vasto impero britannico.
Hopkirk lo ha voluto e lo ha fatto, da militare, agente segreto, giornalista scrittore e inviato nei luoghi caldi del mondo, pedina anche lui di quel “Grande gioco” di spionaggio internazionale che lo aveva irretito da giovanissimo, leggendo Kim per la prima volta e ossessionandolo per il resto della vita. Si può quindi solo immaginare la sua afflizione, nello scoprire, da adulto, che l’impero britannico non c’era più…
Ossessione – si diceva – felice, dal momento che ha generato il suo ultimo volume: «Sulle tracce di Kim. Il Grande Gioco nell’India di Kipling» (Edizioni Settecolori, traduzione di Giuseppe Bernardi, pagine 279, 26,00, postfazione di Robert Jordan).
Si tratta di una specie di testamento letterario che costituisce anche un esordio coi fiocchi per la risorta casa editrice calabrese Settecolori.
In sostanza, in un magnifico diario di viaggio, l’autore (scomparso nel 2014) racconta l’itinerario compiuto da Kim e che lui stesso ha voluto ripercorrere in maniera quanto più aderente all’originale.
Ciò significa prendendo assurdi treni alle 3 della notte (per gli orientali ogni ora vale
l’altra e ciò era vero ai tempi di Kipling e lo è anche adesso), alloggiando in discutibili alberghi, visitando in un autentico pellegrinaggio tutte le tappe citate nel romanzo. Non solo, l’autore veste i panni del detective e, con molto acume e abile tecnica investigativa, passa al setaccio ogni personaggio, oggetto, particolare storico citato in Kim al fine di verificarne un qualsiasi legame storico con la realtà.
Svelare le conclusioni delle indagini sarebbe crudeltà mentale. Basti qui che il procedimento è degno di un’Agatha Christie in gran forma; appassionano e divertono la caccia alle reali identità di Kim, del lama di cui è il chela, il discepolo, del conservatore del Museo – “casa delle meraviglie”.
Hopkirk supera brillantemente anche la prova più difficile per chiunque assuma il rischio di confrontarsi con un capolavoro: esserne sopraffatto o prevaricarlo. Esperienza e malizia gli insegnano che citare ampi brani di Kipling sarebbe forse più semplice, ma snaturerebbe il senso della sua fatica. Del pari fuorviante, un‘arida sintesi che non ne lasci trasparire la stregonesca bravura letteraria (per nulla intaccata dalle visioni del politically correct che lo riducono a scrittore imperialista). Lo scopo è quello di persuadere il pubblico a riscoprire il capolavoro indiano di Kipling nella sua interezza, “gettando nuova luce sulla storia narrata, specie per quanto riguarda il ruolo avuto in essa dal “Grande Gioco”, e le verità nascoste dietro i personaggi che l’animano”.
Scopo perfettamente centrato, con questo che è anche un grande reportage in una terra di confine, dove vive il ricordo degli orrori della guerra sanguinosa tra India e Pakistan e sono visibili le tracce della secolare lotta anglo-russa per la dominazione dell’Asia che, per un britannico, ancora della generazione di Hopkirk, resta tout court l’India.