LORENZO CREMONESI – LA LETTURA – CORRIERE DELLA SERA.
C’è un tipo di giornalismo che non muore mai e si nutre del felice connubio tra cose viste sul campo e lunghe ricerche negli archivi. In questo modo testimonianza e storia diventano ingredienti potenti di una narrativa destinata a durare nel tempo. Un settore da sempre dominato dagli anglosassoni. Pensiamo ai lavori sulle guerre del Novecento dell’ex inviato del «Daily Telegraph» Max Hastings; oppure agli studi sul conflitto arabo-israeliano dello storico israeliano d’origine britannica Benny Mortis, che da giovane fu reporter del «Jerusalem Post». Tra loro si annovera a pieno titolo Peter Stuart Hopkirk (1930-2014), che fu anche giornalista del «Times» di Londra e il cui nome è strettamente legato al suo libro più celebre: Il Grande Gioco, che narra la lunga sfida tra Russia e Inghllterra per il dominio sull’Asia, soprattutto tra metà Ottocento e Prima guerra mondiale.
Due suoi lavori appena pubblicati in Italia tornano a raccontarci di quel braccio di ferro giocato tra figure leggendarie, spie, esploratori, instancabili camminatori, soldati coraggiosi innamorati delle cime himalayane e disposti a sacrifici incredibili in totale solitudine pur di compiere le loro missioni. Eroi di un’epoca in cui mettere a repentaglio la propria vita per un fine superiore era parte dell’ordinario.
Così Hopkirk rimase felicemente stupito di scoprire, osservandola di persona, che la stazione ferroviaria di Lahore, in Pakistan, era sostanzialmente immutata quasi un secolo e mezzo dopo la costruzione a metà Ottocento. «Dall’aspetto più simile a un castello medievale, con massicce mura merlate e alte torri agli angoli… era stata progettata per servire anche da fortezza», annotava Segno tangibile che la trania di Kim seguiva con fedeltà le cronache del subcontinente indiano e Rudyard Kipling aveva scritto molto più che un libro per ragazzi. «Devono essere poche al mondo le stazioni ferroviarie macchiate di sangue come questa», aggiungeva. Su quello che sarebbe diventato il suo piazzale si erano consmnati nel 1857 gli scontri furibondi tra soldati britannici e masse di popolazione decise a scacciare l’invasore coloniale. Ma, soprattutto, da quel luogo novant’anni dopo partiranno i treni di indù e sikh destinati al massacro per mano dei musulmani in rivolta e contemporaneamente arriveranno le carrozz.e insanguinate con a bordo migliaia di cadaveri di musulmani appena uccisi a loro volta da bande di indù e sikh nell’assurdo genocidio che accompagnò l’eclissi dell’impero inglese d’Oriente e la conseguente separazione tra India e Pakistan.
Nel suo Sulle tracce di Kim (Edizioni Settecolori) Hopkirk non nasconde la gioia profonda che prova nel visitare gli scenari di quell’epopea. A far da trama sono le avventure del giovane Kim. Il libro aveva segnato la sua giovinezza. Lo si nota dalle prime pagine, quando, appena arrivato a Lahore, corre a rimirare Io Zam-Zamah, «il drago sputafuoco», l’enorme cannone di bronzo con cui Kipling ci presentava nel 1901 il piccolo orfano di un sergente e una povera bambinaia, entrambi irlandesi, che tutti pensavano fosse invece un vagabondo locale. Kim diventa così un pretesto, una lunga linea rossa, che unisce gli eventi degli ultimi decenni a uno degli scenari più affascinanti della storia dell’Ottocento.
Ma è in Avanzando nell’Oriente in fiamme che la guerra tra Impero britannico e Unione Sovietica vede trasformate quelle avventure individuali in altrettanti capitoli coerenti con il fluire della grande storia mondiale. Sono vicende poco ricordate. La resistenza disperata dei russi bianchi contro l’Armata rossa divenne lotta feroce nella natura aspra delle montagne e dei deserti tra l’Afghanistan, la Mongolia, la Cina e il Kashmir indiano. Ne emergono figure poco note come Manabrenda Nath Roy, il comunista indiano che convinse Lenin sulla necessità di esportare la rivoluzione nel suo Paese. Ma anche il turco Enver Pasha, morto combattendo nella speranza di unire i musulmani delle vecchie province orientali zariste contro il «pericolo rosso». Si leggono d’un fiato le peripezie di Frederick Marshman Bailey, il colonnello inglese capace di camminare nel deserto per centinaia di chilometri. Fuggì dai bolscevichi di Tashkent perché la loro intelligence li aveva avvisati che era ancora in città perché un «ufficiale inglese non parte mai senza il suo spazwlino da denti», ma non sapevano che lui ne aveva in tasca uno di riserva.