GIANLUCA DI FEO – LA REPUBBLICA.

Il grandissimo gioco. Quello di una vita senza confini, spesa con lo spirito ribelle dell’avventuriero. Sin da bambino «amava imparare, odiava che gli venisse insegnato» ed è così che Peter Hopkirk ha disegnato un atlante di racconti che hanno fatto scuola. Il titolo del suo libro più celebre — Il Grande Gioco — è tornato a essere l’espressione comune per indicare le sfide tra spie e diplomazie ma se quel volume magnifico scorreva nell’Afghanistan dell’Ottocento conteso tra russi e inglesi, il resto della sua opera si è allargata all’intera Asia centrale. Trame che scalano le montagne più alte, inerpicandosi fino al Tibet, e poi fanno scorrerie nelle steppe dei mongoli convertiti all’idea comunista fino a seguire i «diavoli stranieri», agenti sotto mentite spoglie mandati ad sorvegliare la via della Seta. Un’epopea a cui Hopkirk ha dato anima e corpo in pagine che restituiscono il fascino dell’esplorazione e l’esotismo dei regni perduti.

Guardava al passato per vedere lontano. C’era in lui la convinzione che la Storia fosse destinata a ripetersi e che quei temerari lanciati secoli fa sulle strade ignote d’Oriente avessero tracciato mappe destinate a restare attuali per generazioni. Una profezia più volte confermata. L’ultimo governante filosovietico di Kabul, Najibullah, assediato senza speranze nel palazzo dell’Onu, spese anni per tradurre Il Grande Gioco nella sua lingua: «Ogni afghano deve leggerlo e imparare dagli errori». E quando all’indomani dell’11 settembre 2001 le truppe britanniche sono rientrate in Afghanistan per combattere i talebani, Hopkirk invitò a non dimenticare le disfatte subite in quella terra dai loro antenati. Non è stato ascoltato e le forze di Sua Maestà hanno dovuto ammainare la bandiera dopo quindici anni di inutili battaglie e quasi cinquecento caduti.

Non una sola parola dei suoi libri è scelta a caso. Si documentava accumulando pile di testi, saccheggiando librerie e biblioteche: una caricatura lo mostra curvo in redazione tra altissime cataste di volumi, accanto a un cammello pronto a mettersi in marcia, come lo zaino che afferrava per partire ogni qualvolta si presentasse l’occasione. Perché la sua conoscenza era sempre diretta, quella del viaggiatore curioso di tutto. Fin troppo. La carriera giornalistica lo ha fatto spesso finire nei guai, perché andava oltre il limite del reportage. Arriva a Cuba poco prima dello sbarco di Baia dei Porci, unico inviato occidentale presente nell’isola, e la polizia di Fidel Castro lo sbatte in cella accusandolo di essere una spia. Lo stesso gli succede a Beirut, imprigionato come agente segreto ed espulso, salvo poi tornare e descrivere il vortice di violenza che ha travolto la perla del Mediterraneo.

Era la vita che aveva sognato. Nato a Nottingham, liceo ad Oxford pensando più al rugby che alle lezioni, mai laureato perché «la sua avventura è cominciata nel 1949, come tenente nel reggimento dei King’s African Rifles — così nel 2015 lo hanno ricordato nella messa per il primo anniversario della scomparsa —. Dalla caccia ai banditi sul dorso di un cammello a rischiare la pelle per una carica di bufali o per il veleno di uno scorpione, il Gioco era cominciato. Nessun lavoro in ufficio avrebbe potuto soddisfarlo e allora è diventato un giornalista». Non si è più fermato: America, Europa, Medio Oriente, Asia. Prima al Sunday Express, poi a The Times che era ancora il vessillo dell’autorevolezza anglosassone. Pezzi di costume o cronache drammatiche: onnivoro di conoscenza, ma soprattutto di esperienza. Nel 1974 il volo che dal Libano lo riportava a Londra è stato dirottato da due giovanissimi terroristi palestinesi. E sulla pista, dopo che avevano iniziato ad incendiare l’aereo, lui li ha convinti nel fumo a consegnare le armi ed arrendersi, salvando la vita di tutti i passeggeri. «Gli ho spiegato nel dettaglio cosa li aspettava e si sono resi conto che non avrebbero avuto scampo». Molto british e altrettanto determinato. Come gli eroi dei suoi racconti. Tanti se ne possono incontrare nelle 320 pagine di Avanzando nell’Oriente in fiamme portato ora sugli scaffali da Mimesis. È quasi un sequel del Grande Gioco. Sulla stessa scacchiera alle pedine zariste si sostituiscono quelle bolsceviche mentre dalla fucina del conflitto tra armata rossa e cosacchi bianchi nasce il piano di Lenin per allungare la marcia sovietica all’Asia. Ovviamente, sta sempre agli inglesi il compito di fermarlo, muovendosi soprattutto nell’ombra.

L’origine di tutto però l’ha svelata nell’ultimo volume, che finalmente l’editore Settecolori ha tradotto in italiano: Sulle tracce di Kim. L’unico in cui parla di sé: «La lettura giovanile di Kim non mi ha semplicemente introdotto nel mondo del Grande Gioco. Mi ha anche aperto gli occhi su un universo pieno di promesse». Per l’intera esistenza Hopkirk ha seguito il ragazzo incontrato nelle pagine di Kipling, quell’arguto tredicenne europeo, «un povero bianco tra i più poveri che ci possano essere» cresciuto nei peggiori vicoli di Lahore che si improvvisa protagonista del libro della giungla delle spie, tra sicari, colonnelli, monaci erranti, mercanti. Un catalogo di doppie vite tra cui il giovanetto fa slalom e che viene ripercorso passo dopo passo, alla ricerca di ogni luogo e ogni figura che hanno guidato l’ispirazione di Kipling, autore oggi ostracizzato per l’impronta colonialista fino a negarne la potenza letteraria. «È venuto il momento di partire inseguendo Kim per un viaggio che ci riporterà indietro nel tempo di un centinaio di anni, in un mondo che non esiste più, nel ricordo ormai fosco di certi vecchi, uomini e donne, che un tempo erano al servizio del Raj, l’amministrazione britannica in India». È l’opera finale, la sola in cui traspare una vena di nostalgia: non per l’Impero ma per i sognatori capaci di cambiare la Storia. Riconoscendo che, in fondo, il Grande Gioco per lui è sempre stato un gioco da ragazzi.