
Davide Brullo – IL GIORNALE. 12/02/2022.
Fra saggio, reportage e note di costume, lo scrittore s’immerge nella bohème spagnola degli anni Sessanta
Come tutti i grandi libri, anche questo comincia di sera, in un caffè, e si chiude con un funerale, in un giorno «crepuscolare e ventoso», dal «freddo violaceo». Come tutti i grandi libri, questo libro comincia con l’ambizione, ferina, e si chiude sull’erma del disincanto, celebra la mistica della chiacchiera e il mistero della poesia, è un’elegia sgraziata della giovinezza che s’incaglia nel cadavere, racconta il crollo e la carne, l’amore e la morte, l’amare fino alla morte. Il morto è Ramón Gómez de la Serna, superbo scrittore spagnolo che «con ostinazione infantile» cullò l’idea, bellissima e fatale, dello scrittore come «uomo al di là che non si sporca con la volgarità del mondo». Invece, il mondo è mera cloaca, becero anelare nel vento, e scrivere non salva nessuno, il poeta è cronachista del piscio, geologo tra ziggurat di merda; la letteratura, infine, resta «il più mediocre degli impegni con la storia».
Francisco Umbral – nome che nasconde un francescanesimo di ombre – è stato, semplicemente, il più audace stilista della lingua spagnola recente, un poligrafo, un provocatore, un generoso bastardo. Della sua prosa da carmelitano della lussuria, viscerale, voluttuosamente scabra e selvatica – «mi hanno sempre annoiato i classici di qualunque epoca e di tutte le culture», scrive lui, che a Cervantes, «a volte enfatico, retorico e pesante», preferiva Nietzsche, «pensatore distruttivo e spaventosamente lucido» -, in Italia, per atavica disattenzione, c’è quasi nulla, il libro dedicato al figlio morto, Rosa e mortale (edito da Jaca Book nel 1997), estratto da un’opera muscolare, esorbitante, che svaria tra romanzo, saggio al vetriolo, biografia (quelle dedicate a Lord Byron e al poeta maldito García Lorca, ad esempio), reiterate raccolte di articoli. Amava Carlo Emilio Gadda, era apprezzato da Jorge Luis Borges e genericamente odiato da quasi tutti gli intellettuali spagnoli che, scrisse alcuni anni fa, su El País, «continuano ad aggrapparsi al mantello del principe, che oggi è il politico. Per questo non vado più alle riunioni degli intellettuali: sono isterici, hanno perso ogni potere sulla storia, ogni legame con la società».
È un grande libro, questo, pieno di iniziazioni, di illazioni e di agnizioni, pieno di alienati, di poeti, di fallimenti e di falliti. Dire che la letteratura del secolo scorso si è fatta in una manciata di café – il Giubbe Rosse a Firenze, il Café de Flore a Parigi, il Tortoni a Buenos Aires… – è perfino un cliché: oggi si fa, piuttosto, leccando il didietro di un editor e sperando nell’invito in tivù («Toda la televisión es putrefacta», diceva, a proposito, don Francisco). Umbral ha raccontato, del Gijón di Madrid, il fiore, l’arcano, la verità e la vanità. Fino a trarne una morale, di saturo stoicismo: «Sembra che imparare a vivere… debba essere fatto di grandi scoperte e profonde ed elaborate verità. E invece no. Pare proprio di no. Sembra proprio che imparare a vivere voglia dire apprendere piccoli dettagli, cose di poco conto. Dare, una dopo l’altra, pennellate rapide e precise all’immagine di noi stessi».
Umbral è stato un giornalista dal talento inesorabile, uno scostumato censore dei costumi. Le cronache mondane pubblicate su El País – reperibili nell’archivio digitale del quotidiano spagnolo – sono spesso miliari: il «Ché», per dire, «era un Byron col berretto da guerrigliero, ha immesso nel clima biondo della nostra giovinezza una galassia di ferocia. Ha vissuto sulle pareti delle stanze adolescenti insieme a una riproduzione del Guernica di Picasso e all’icona di Alice, quella dei Lewis Carrol, il prete» (17 ottobre 1987); Picasso «è stato per quasi un secolo la novità assoluta perché ha rappresentato la tradizione assoluta… Ha genialmente plagiato l’arte di tutti i tempi» (25 ottobre 1986); di fronte a una confessione di Pedro Almodóvar, «Non mi sento desiderato, ed è terribile», Umbral reagì con candore al vetriolo: «Ora è finita, suppongo. Almodóvar ha avuto successo con un cinema segretamente terzomondista, che sublima il terzomondismo… tutti a Madrid si sentono riassunti e assunti da Almodóvar, e sono felici» (27 febbraio 1988).
Soggiogati dall’immaginario americano, in estro per Joan Didion, celebriamo i fasti del New Journalism e di quello Gonzo, ci galvanizza il gergo di Truman Capote, la mise di Tom Wolfe: Francisco Umbral, barocco, sgargiante, osceno e aggressivo, non è da meno, è l’antidoto europeo alla missilistica melassa statunitense. In una fotografia scattata parecchi anni fa, Umbral è nudo, peloso, i consueti occhiali, capelli lunghi, fissa un teschio, che sorregge con la sinistra; una Olivetti, messa di sbieco, copre le vergogne. Quanto al resto, fu geniale e svergognato.