Genocidi dimenticati

di Donatella Trotta – IL MATTINO – 6 Luglio 2022

Dalla Catastrofe dell’Asia Minore del 1922 al massacro di Sebrenica del 1995 due libri raccontano una Storia che si ripete

La banalità del male non conosce confini. Spaziali, temporali, generazionali. Alligna – da sempre, anche se si continua a sperare non per sempre – ovunque. Con vittime e carnefici che (al di là dell’etnia, del genere, della religione, dell’ideologia politica, dell’età) sono accomunati da un unico dato sotteso a molti genocidi: l’insensatezza disumana della violenza. Che distrugge: vite, civiltà, paesaggi interiori e fisici, futuro. Nell’attuale crudeltà della guerra della porta accanto in Ucraina (per tacere di altri perduranti conflitti e negazioni di diritti umani, dall’Afghanistan alla Siria all’Africa e oltre, ma passati in secondo piano, nell’opinione pubblica monopolizzata dall’odierna emergenza e dalle sue ricadute concrete sulle vite di tutti, ben al di là della pandemia), alcuni editori stanno proponendo titoli preziosi per una riflessione fondata sul recupero di una memoria storica poco frequentata, che possa aiutare a risvegliare dal sonno della ragione. È il caso di due libri che fanno luce su due grandi tragedie dimenticate dai più: il genocidio greco in Asia Minore, nel 1922 e il massacro di Srebrenica, nel 1995.

Il primo volume, di Ilias Venezis (1898-1973), considerato uno dei massimi scrittori greci della cosiddetta generazione del ’30, si intitola Il numero 31328. Il libro della schiavitù pp. 289, euro 22), ed è la sconvolgente opera autobiografica d’esordio dell’autore, appena uscita per Edizioni Settecolori in prima edizione italiana (pubblicato nel 1931, ha avuto una lunga vicenda editoriale di censure) con la traduzione di Francesco Colafemmina e la partecipe prefazione di Antonia Arslan, fine scrittrice e studiosa divenuta autorevole paladina di un’altra vicenda misconosciuta (o rimossa): il genocidio armeno. Ilias Venezis (pseudonimo di Ilias Mellos) racconta in presa diretta la cronaca asciutta di ciò che accadde dopo il tragico incendio che distrusse Smirne, che i greci chiamano la “Catastrofe dell’Asia Minore” (Mikrasiatikì katastrofì), ovvero la deportazione, per moltissimi una “marcia della morte” delle millenarie comunità greche dall’Anatolia, terra che abitavano dall’XI secolo a. C. in una pacifica convivenza tra greci, turchi e armeni, ebrei, levantini simboleggiata dallo splendore del porto mediterraneo della capitale Smirne, città della Ionia affacciata sull’Egeo e profondamente greca, pur nella sua variegata mescolanza etnica. Fino alla guerra greco-turca (1919-1922). E alla distruzione di Smirne, dopo il precedente genocidio dei greci del Ponto nel 1915-16. Una «storia inedita e affascinante di sofferenza, di coraggio e di riscatto» la definisce Arslan, ripercorrendo tappa dopo tappa il calvario di quei sudditi ottomani di etnia greca – decine di migliaia di uomini tra i 18 e i 45 anni: ma l’esodo forzato coinvolse un milione e mezzo di persone – rastrellati e deportati all’interno dell’Anatolia, la maggior parte verso una morte certa, con una esigua minoranza di sopravvissuti a torture, violenze perverse e turpi degradazioni che solo alla fine del 1923, scampati all’inferno, potranno finalmente «cominciare a tessere la trama della memoria e della testimonianza».

Parole chiave, memoria e testimonianza, per addentrarsi nella lettura di questo libro indandescente per impatto emotivo, assaporando con parsimonia la cruda asciuttezza del racconto autobiografico di Venezis, che è proprio uno dei sopravvissuti all’orrore: nel settembre del 1922 Ilias ha diciotto anni, è un ragazzo di campagna impreparato alla indicibile sorte che lo attende e costretto, dal dolore, a crescere di botto in quattordici interminabili mesi di dura prigionia, pesante lavoro forzato, lancinante solitudine, fame e vessazioni e angherie di ogni sorta. I suoi aguzzini (come tutti gli aguzzini di ogni tempo e latitudine) mirano a degradare a “non persone” le loro vittime. Ilias invece riesce a resistere. Ad andare oltre. A trovare le parole per dirlo, ciò che ha vissuto e con lui tanti altri, che non sono riusciti a tramandarne il ricordo. Ma in questa toccante storia vera, potente come solo la verità vissuta e narrata senza fronzoli sa essere, persino la pietas si insinua laddove sembrerebbe impensabile, conferendo il valore aggiunto della speranza al racconto di un’opera prima che rivela il talento di uno scrittore autentico.

Nel centenario della Catastrofe dell’Asia Minore, che dopo le violenze, le rappresaglie, gli incendi dei villaggi, gli stupri etnici spazza definitivamente via la millenaria presenza ellenica in Asia Minore, “Matricola 31328” (titolo originario del “libro della schiavitù”), cronaca di un genocidio annunciato sin dalla prima guerra mondiale che ha segnato la storia e la cultura greca, preannuncia fra il resto le dinamiche della Shoah durante la seconda guerra mondiale. Come sottolinea opportunamente Arslan, la sua portata di testimonianza è perciò «immensa: ma il suo valore di poesia, il suo potere di espressione e di risonanza non sono da meno» perché questo libro «trasmette nei lettori il bridivo oscuro della memoria, i numeri tatuati sulle braccia dei deportati».

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