
di Antonia Arslan * – TUTTOLIBRI – LA STAMPA – 9 Luglio 2022
La guardia turca risparmia gli insetti: peccato essere nati uomini e non pidocchi!
Ho letto per la prima volta questa storia inedita e affascinante di sofferenza, di coraggio e di riscatto tanti anni fa, quandocomprai a Roma, su una bancarella di libri usati vicina alla Stazione Termini, la prima edizione italiana (in realtà traduzione dall’edizione francese e non dal greco come la presente): un libretto sgualcito pubblicato nel 1947, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale[1]. Il titolo era stato cambiato in La grande pietà, molto meno realistico e più ‘neutro’ di quello originale, Il Numero 31328, che trasmette al lettore il brivido oscuro della memoria dell’annientamento degli ebrei sotto il regime hitleriano, coi numeri tatuati sulle braccia dei deportati.
Conoscevo già il nome di Venezis. L’anno prima avevo letto con passione Terra d’Eolia[2], che è in realtà il suo terzo romanzo (uscito in Italia per l’editore Casini nel 1951). L’autore lo definisce «il semplice libro degli uomini buoni», ma è molto di più. È un libro incantato, nel quale i paesaggi e le persone danzano insieme in una solare e delicata armonia, in cui sembra echeggiare il flauto silvestre di Pan e la nostalgia degli esuli cacciati per sempre da un eden che non si può dimenticare. Quando mi immersi nel racconto di quel mondo leggendario della grecitàtanto amato e tanto perduto, rivissuto come una fiaba malinconica attraverso le vite laboriose e coraggiose dei ‘romei’, i discendenti dei bizantini, cominciai ad afferrare l’eco di quella civiltà così antica e così preziosa, che non era la Grecia peninsulare che conoscevo e amavo, ma l’altra, la Ionia ubertosa e ricca d’acque che si affaccia sull’Egeo, dove nacque la filosofia e il popolo greco ebbe radici fertili e profonde.
La sua capitale era Smirne, il grande porto mediterraneo, una città profondamente greca, vivacissima, tradizionale e moderna insieme, dove convivevano greci turchi e armeni, ebrei, levantini e gente di tante altre etnie. Una spina nel fianco del generale Kemal, il nuovo padrone della Turchia, che non a caso – dopo aver respinto a mare lo sconfitto esercito greco – la abbandonò al fuoco, che cancellasse anche il ricordo degli splendori del passato. Siamo nel settembre del 1922. Venezis è un ragazzo di campagna diciottenne, che si trova, come tanti altri, coinvolto nel disastro, in quella che viene chiamata la grande catastrofe dell’Asia Minore. Perché non ci fu solo l’incendio. Subito dopo, venne condotto contro i sudditi ottomani di etnia greca un gigantesco e capillare ‘rastrellamento’, che portò alla deportazione verso l’interno dell’Anatolia di decine di migliaia di uomini fra i diciotto e i quarantacinque anni – avviati per la maggior parte alla morte – e nell’esodo forzato dalla patria ancestrale (abbandonando tutto, terra, case, beni, secondo lo schema collaudato contro gli armeni) di tutti gli altri, donne vecchi bambini: circa un milione e mezzo di persone.
Questo è il tema di Il Numero 31328, la prima, bellissima opera di Venezis. Credo che, senza quella paziente e dolorosissima fatica nel ripercorrere le tappe dei suoi quattordici mesi di prigionia nei cosiddetti battaglioni di lavoro (degli uomini della sua città, Aivalì-Kydoníes, scriverà, su 3000 sopravvissero in 23…), senza aver rivissuto ed esorcizzato quello spaventoso calvario, egli non avrebbe potuto descrivere con tanta amorosa nostalgia – ma anche con la consapevolezza che quel mondo se ne era andato per sempre – la patria perduta che aveva dovuto abbandonare: e trasformare la sofferenza in poesia. Le immagini di bellezza senza tempo che incantano in Terra d’Eolia riemergeranno e potranno fiorire in lui soltanto dopo che avrà affrontato il racconto dellatragedia, sua e di tutto il suo popolo.
Il Numero 31328 è la rappresentazione dura e scabra, ancorata a un pacato realismo e di grande impatto sul lettore – ma con improvvise aperture di disperata tenerezza – di un’esperienza durissima di prigionia e di pesantissimo lavoro forzato, di solitudine e di fame continua e onnipresente. Il ragazzo è del tutto impreparato alla sorte che lo attende: separato dalla famiglia costretta ad imbarcarsi verso la Grecia, si trova solo ed esposto a tutte le angherie, le umiliazioni e le torture che i soldati turchi che accompagnano i deportati riescono ad inventare, giorno dopo giorno, dando prova di capricciosa, perversa fantasia.
Come avvenne durante i genocidi degli armeni, degli assiri, dei greci del Ponto nel 1915-16, le dinamiche della deportazione mirano alla riduzione dei prigionieri a schiavi tremanti che aspettano un imprevedibile castigo. E per demolire la loro dignità di uomini, a parte la ‘scrematura’, cioè la ricerca quotidiana – e del tutto casuale – in mezzo al gruppo di alcune persone da eliminare sommariamente, o la sorte terribile di alcune donne greche scelte per il piacere della truppa e infine lasciate morire dopo averle ‘usate’ oltre ogni limite, particolarmente efficace è il racconto delle selvagge procedure di spoliazione che ossessivamente si ripetono. Poco dopo la partenza verso l’interno dell’Anatolia e il loro ignoto destino, i deportati vengono improvvisamente costretti a togliersi le scarpe e tutti gli abiti, e a restare a piedi nudi e in mutande, all’aperto, di giorno e di notte. Larve che camminano verso il nulla, maltrattati e affamati, venduti come schiavi dai loro aguzzini alla gente dei villaggi che attraversano. E se per caso trovano qualche straccio con cui coprirsi o un paio di scarpe sfondate, subito glielo portano via. E tuttavia la disumanizzazione si arresta di fronte all’incoercibile resistenza della volontà vitale di alcuni di loro, che Venezis racconta in scene descritte con pennellate essenziali, senza sbavature, senza commenti.
I caratteri dei personaggi risaltano vividi, indimenticabili: dalla madre che vorrebbe riuscire a salvarlo, le cui lacrime ‘scendono sulla guancia silenziose e indifferenti… e si infilano nelle rughe’ come provenendo da una misteriosa sorgente, al soldato turco che cura con delicata mitezza un cavallo sofferente, mentre racconta ai prigionieri in che modo ha affondato la baionetta, come un batuffolo di cotone, nel corpo di una povera anima semplice che non aveva capito di essere condannato. Non mancano momenti di riflessioni paradossali nella loro stranita saggezza, come la pagina sui pidocchi infestanti che la guardia considera un peccato ammazzare: «in mezzo a questo popolo virtuoso, che rispetta i pidocchi, non poteva Argiris [un compagno morto] nascere anche lui pidocchio?».
E infine, questo è anche un romanzo di formazione. In quei mesi che valgono una vita il ragazzo Ilias si indurisce, matura e diventa uomo. Intanto la situazione si stabilizza lentamente e compare qualche barlume di umanità o perlomeno di possibile convivenza, con una vecchietta, un medico, ma soprattutto con i più disgraziati, quei soldati semplici che sono poveri contadini provenienti dalla profonda Anatolia, i quali alla fine capiscono di condividere coi prigionieri un destino di miseria e squallore.
Ma è soltanto verso la fine del 1923 che i pochi superstiti potranno infine fare ritorno, e cominciare a tessere la trama della memoria e della testimonianza.
[1] L’edizione della casa editrice dell’Azione Cattolica Italiana, AVE, del 1947 è una traduzione dell’unica edizione francese del Numero, curata dallo slavista Henri Boissin e sua moglie Hélene nel 1945 (La Grande Pitié, Editions du Pavois, Paris 1945). Le numerose lacune dell’edizione francese, elaborata sulla prima edizione del Numero e non su quella rivista da Venezis nel ’45, si ritrovano naturalmente nell’unica versione italiana, peraltro non supervisionata dall’autore. Nell’archivio Venezis, disponibile presso la Biblioteca Ghennadios di Atene, è d’altro canto possibile riscontrare le numerose correzioni per mano dell’autore alle bozze della traduzione francese.
[2] Terra d’Eolia sarà pubblicata prossimamente da Settecolori in una nuova traduzione.
* Il testo riprodotto è quello della prefazione al Numero 31328.