WLODEK GOLDKORN — 26 MAGGIO 2024.
Arriva in libreria la testimonianza estrema e poetica di Nadezda Chazina, compagna del poeta russo assassinato nel 1938
La poesia ( … ) non deve nulla a nessuno, e nulla andrebbe preteso dalle parole di Osip Mandel’štam, sua moglie Nadežda in Speranza abbandonata, un libro di oltre 800 pagine, tradotto da Valentina Parisi e Marta Zucchelli, con una prefazione di Paolo Nori, una postfazione (intelligente e puntuale) di Parisi e un apparato di note che di per sé è un’enciclopedia della letteratura russa del Novecento, e pubblicato da Settecolori. Intanto, Nadezda Chazina – questo il nome da ragazza dell’autrice – considerata “la vedova” del grande poeta, assassinato da Stalin nel 1938, qui si rivela una scrittrice di prima qualità, osservatrice acuta della realtà in cui vive e una pensatrice che affronta con estremo coraggio concetti come paura e vergogna e la fenomenologia della memoria, centrali per la narrazione delle dittature di stampo totalitario. Ma Speranza abbandonata è un testo la cui bellezza consiste non solo nella qualità della scrittura (resa bene dalle traduttrici), quanto nel fatto che si tratta di un libro in gran parte di digressioni, racconti sulle persone e sulla vita quotidiana e che finiscono per costituire una narrazione epica e al contempo delicata delle esistenze “sospese” degli uomini e donne sopravvissuti per caso, in un regime, quello di Stalin, di totale arbitrio.
In questo suo testo oceanico Mandel’štam accenna alle polemiche culturali nella Russia dei primi due decenni del Novecento. Parla di suo marito, che assieme ad Anna Achmatova si opponeva alla generazione precedente dei poeti, in nome di una parola e di un verso trasparenti e chiari e rifiutava il culto del poeta e del gesto artistico. Non entreremo nei dettagli. L’importante è l’atmosfera del dibattito, anzi del fermento culturale e politico dell’epoca. E della sua attualità. Ecco, fra le altre cose, Speranza abbandonata dà conto di quanto la discussione di prima della Rivoluzione d’ottobre – fra gli esponenti delle correnti letterarie, filosofiche, religiose e via elencando – fosse ricco e di come i suoi echi siano presenti nella Russia di oggi. Per esempio, la polemica fra coloro che riscoprivano le radici euroasiatiche del Paese e coloro che erano e sono orientati verso le mitologie che diedero la forma all’Europa.
Il libro racconta pure il lato reazionario, una specie di ritorno all’ordine del potere comunista. Non solo nel campo delle idee e dei criteri estetici. Dall’idea e pratica dell’amore libero (Nadežda lo rivendica con forza) si passa velocemente all’esaltazione della famiglia tradizionale. Scrive l’autrice: «I nostri antagonisti, quelli che hanno ammazzato i nostri cari, avevano consolidato le loro famiglie, attribuendo alle mogli il titolo di “consorte”». Aggiunge: «Si sentivano sicuri e saldi sulle gambe, ma in realtà morivano come noi, con la stessa facilità insieme alle loro consorti». E ancora: «Sono sempre stata curiosa di cosa pensa una donna che vive con un assassino». Lei dichiara di invidiare Antigone.
E se Antigone sfidò la legge del tiranno per dare sepoltura al fratello, Nadežda ha salvato la memoria del marito. Alla lettera. Se conosciamo le poesie di Osip, è perché lei le ha imparate a memoria. Ma è andata oltre. In questo libro parla delle “malattie della memoria” e le elenca. Eccone alcune: l’autogiustificazione, la tendenza ad abbellire e «l’oblio di ciò che è “superfluo”». Ammonisce di «non fare affidamento sul senso della propria giustezza», perché «la memoria altera i nostri ricordi».
Ci sono, nel libro, episodi che oggi possono sembrare grotteschi. Nei primi anni Venti non mancava un certo entusiasmo, ma al contempo regnava la povertà, nelle città si vedevano persone ridotte alla fame, molte fuggite dalla campagne. E gli artisti, la cerchia che lei frequentava? Per avere un paio di pantaloni e una camicia nuova dovevano rivolgersi alle autorità preposte con la mediazione di autori ben visti dal potere, i quali autori a loro volta esercitavano il loro piccolo potere, negando loro la camicia o i pantaloni.
Infine, la paura: «il sentimento più potente che avessimo mai provato». Si tratta di «un sentimento consono ai sopravvissuti, che non sono del tutto sopravvissuti» (e l’assonanza con il Primo Levi di I sommersi e i salvati è evidente). Chiosa l’autrice: «Anche la paura non sempre è uguale – finché è vivo il senso del disonore si è ancora uomini, e non schiavi». E rivendica «la sensazione terapeutica del disonore». In fondo è quella la ragione per cui ha scritto questo libro, oltre che per rivendicare il diritto alla libertà e alla poesia.