Un romanzo esistenziale alla Simenon. Con l’accusa di inteliggenza con il nemico fu l’unico fucilato tra i letterati

Il libro s’intitola Sei ore da perdere (Edizioni Settecolori, pagine 248, euro 22) e lo pubblicò Robert Brasillach su “Révolution nationale” tra l’11 marzo e il 10 giugno del 1944. La prefazione di questa edizione italiana, Uno scrittore ritorna, è di Roberto Alfatti Appetiti, mentre la prefazione di Fausta Garavini è un estratto ricavato da un suo volume apparso nel 1973, I sette colori del romanzo. Siamo nella Parigi occupata dai tedeschi nel 1943 e Robert B. (un evidente alterego dell’autore) è appena ritornato in città dopo più di tre anni di prigionia: «Il treno da Compiègne entrava dolcemente in stazione, ma sapevo che nessuno era li ad aspettarmi». E poi: «È sempre triste arrivare soli in una stazione dove non si è attesi». Tanto più quando, lasciato un treno, ci si appresta a prenderne un altro: «Sarei dovuto restare a Parigi sei ore. Sei ore da perdere tra due stazioni, che sembravano, adesso che ero così vicino alla meta, più gravose per la mia impazienza che i miei quaranta mesi di prigionia». Ma il protagonista ha anche una promessa da mantenere: quella fatta a un suo commilitone e compagno di detenzione, Bruno Berthier («Tra i due o tre libri che trascinava con sé nella sua cassetta di ordinanza, c’era Gilles di Drieu»), il quale, durante una brevissima licenza, aveva conosciuto, innamorandosene, una ragazza: «Mora e mal vestita», nell’unica piccola fotografia scolorita, «con un viso impaurito da adolescente». Robert B. sa bene che le probabilità di rintracciarla non sono molte: «Che follia credere di poter ritrovare Marie-Ange Oliver!», una che, nel maggio 1940, viveva «in una specie di hotel» e chissà dove adesso era finita. Epperò, come si fa a disattendere la richiesta di un uomo in difficoltà che si fida ciecamente di te, se è vero che, come l’io narrante sa, migliaia di individui «hanno cristallizzato le più stupefacenti illusioni», costruendo così «mille romanzi senza rapporto con la realtà», per ritrovarsi «un giorno faccia a faccia con questa realtà, legittima o illegittima che sia»? Già: la vita che si fa romanzo – che non può non farsi romanzo -, se è vero che, attorno alla figura della scomparsa Marie-Ange (un ex marito, un figlio), si va via via consumando una vicenda non poco losca e non priva di colpi di scena (compreso un omicidio), tra il noir e il giallo (con tanto di colpevole, ovviamente), di tipo psicologico e esistenziale, alla Simenon per intenderci, il quasi coetaneo di Brasillach, il cui nome è stato giustamente subito suggerito da Fausta Garavini. Man mano che l’insolita inchiesta si sviluppa, i «incerta figura di quella ragazza malaticcia, che tuttora manteneva il suo posto nelle fantasticherie di esiliato del mio camerata», diventa «sempre più oscura, sempre più contraddittoria»: vedrà il lettore con quali esiti. Il discorso su queste pagine, però, non sarebbe completo se non si aggiungesse che abbiamo di fronte anche uno dei possibili romanzi di Parigi, d’una Parigi, mettiamola così, città aperta: il luogo assolutamente inedito, sconciato e devastato, incanaglito e disperato, in cui Robert B. approda. Ecco: «Tentavo allora, non tanto di osservare Parigi, neanche di paragonarla a quella che avevo conosciuto, quanto piuttosto di farla coincidere con la Parigi immaginaria che mi ero costruito al campo con alcune fotografie illustrate e qualche articolo di giornale». Tutto converge verso un epilogo in cui i nodi si scioglieranno, ma dentro una sorta di tregua tra il romanzo e la vita, se così si può dire, in presenza d’un finale che è, insieme, lieto e dolente. Ecco: «Il treno si mise in marcia, saltai dal marciapiede». E poi: «In piedi contro un pilastro di ferro, la testa un po’ inclinata e la mano alzata verso di me in segno di addio, quell’esile figura, che in un istante sarebbe scomparsa, mi sembrava l’immagine votiva della nostra contrastata epoca». Ecco: la «nostra contrastata epoca». Quella che lo scrittore francese, processato e condannato a morte il 6 febbraio 1945, a nemmeno trentasei anni, in quanto collaborazionista col regime di Vichy, seppe interpretare fino in fondo, con imbarazzante candore e con bruciante autenticità, in tutte le sue contraddizioni. Un destino che però lo consegnò per sempre a un’ ingiusta damnatio memoriae, resa ancor più feroce dal fatto che, in quella schiera di intellettuali compromessi coi nazisti, fu colui che si comportò con più onore, non sottraendosi alle sue responsabilità e rifiutandosi persino, a differenza di molti suoi sodali che così scamparono alla morte, di raggiungere Sigmaringen. Quando fu emessa l’atroce sentenza furono in tanti a chiedere la grazia in un appello al generale De Gaulle, tra i quali François Mauriac, Paul Valéry, Paul Claudel, Jean Paulhan, Jean Cocteau, Colette, Arthur Honegger, Jean-Louis Barrault. Ma, tra i firmatari di quell’appello, fu Albert Camus a pronunciare le parole più lucide e toccanti: «Se Brasillach fosse ancora tra noi avremmo potuto giudicarlo. Invece ora è lui a giudicare noi».