DI FRANCESCO MELCHIONDA – PERFIDE INTERVISTE – 01 LUGLIO 2023

INSEGUIVO STENIO SOLINAS DALLO SCORSO AUTUNNO. DOPO AVER DELIBATO “ATLANTE IDEOLOGICO-SENTIMENTALE” E IL MONUMENTALE “SUPERVAGAMONDO”, MI SEMBRAVA DOVEROSO OLTRECHÉ GIUSTO PROVARE A RACCONTARE UNO DEGLI ULTIMI MOHICANI DELLA CARTA STAMPATA

Leggendolo e vedendolo de visu, si può dire, senza tema di smentita, che Solinas – un sardo-calabro aspro – faccia parte della schiatta degli intellettuali imprestati al giornalismo.

Per cultura, storia, postura, sprezzatura, Solinas non ha nulla del giornalista classico, anzi. Non è affamato di scoop, non insegue spie. Non cerca informatori. Tutt’altro.

Me lo immagino, soprattutto negli anni in cui diresse le pagine culturali del primo Giornale feltriano, a scovare, segnalare autori, o, ancora, a fare il controcanto alla cultura de sinistra, soprattutto quella più barricadera e fanatica.

Milanese d’adozione, dopo essere cresciuto negli anni del terrorismo a Roma, approfitto di una sua capatina romana, sempre più sporadiche, per interrogarlo e farmi raccontare cosa si prova ad essere, da sempre, sulla rive droite della nostra cultura, e, soprattutto, quando lo stare nell’universo conservatore era da considerarsi blasfemo. Controproducente.

Con il sigaro in mano, mi attende seduto, in una sorta di chiostro, dalle parti di via Garibaldi. Più che un albergo, sembra un’oasi. Siamo ai piedi del Gianicolo, ma lontanissimi dai traffici capitolini e dal frastuono assordante di lanzichenecchi ingabbiati in abitacoli soffocanti.

A dispetto di come è stato inutilmente dipinto, ovverosia un Jep Gambardella in salsa sorrentiniana, Solinas non ha bisogna di paragoni.

Passandoci delle ore insieme, leggendo i suoi libri e quelli che ci ha fatto conoscere – su tutti, “I Due Stendardi” di Lucien Rebatet: capolavoro assoluto, pubblicato dalla meritoria Sette Colori! – la sensazione, netta, chiara, nitida, che ho avuto, una volta spento il registratore e infilatomi nel budello dei vicoli trasteverini, è che nel grande bordello del pensiero, per dirla con Balzac, Solinas sia uno degli ultimi romantici del nostro tempo…

*  *  *

Stenio Solinas, qual è stato il libro della tua infanzia?

Salgari, Dumas, il Twain di Tom Sawyer e di Huckleberry Finn, lo Stevenson di L’isola del tesoro…Poco Jules Verne, se non Il giro del mondo in 80 giorni e I figli del capitano Grant… Di quest’ultimo ricordo la versione cinematografica con un’attrice ragazzina, l’inglesina Hailey Mills, che mi piaceva moltissimo e che un paio di anni dopo, da adolescente, fece un film che si intitolava Giallo a Creta: bravi attori, Eli Wallach, Pola Negri, un mare e un’isola fantastici…Come vedi tutti libri d’avventura, tipici di un’età in cui si viaggia soprattutto con la fantasia.

Avevi già intuito che la tua vita sarebbe stata poco sognante?

Ma no, è che la vita non è sogno, semplicemente.

Ti piaceva la Roma degli Anni Settanta?

Sì, perché era ancora vivibile: nonostante ci fosse un forte scontro ideologico e generazionale conservava, soprattutto agli inizi, scampoli di amicizie, di rapporti di umanità. E poi era ancora bellissima e, culturalmente, offriva molto: tante sale cinematografiche e poi i d’essai e i cineclub, i teatri tradizionali e quelli d’avanguardia, locali jazz, librerie d’ogni tipo. Quando l’ho lasciata per Milano è stato per me come andare in esilio, anche se in seguito il sentimento che ho cominciato a provare ogni volta che ritornavo è stato d’insofferenza.

Perché? Ti sentivi già superiore, come spesso accade a chi vive a Milano?

No, assolutamente! È che il cinismo ironico e la bonarietà, tipici dei romani, che io adoravo, si erano sempre più trasformati in cattiveria, menefreghismo, arroganza. Milano era una città che funzionava. C’è una frase di Ennio Flaiano su Roma: “L’unica città mediorientale a non avere un quartiere europeo”… Da paradossale battuta al tempo in cui la pronunciò si è poi trasformata in realtà.

Anche il tuo primo rapporto sessuale fu da dimenticare?

No, per niente. Ho avuto rapporti sessuali felici. Non ero un adone, ma nemmeno un cesso…Delle ragazze della mia giovinezza ho un bel ricordo: per quel che ne so, reciproco.

Rimorchiavi o, pensando ai libri, davi dimostrazione d’imbranataggine?

Non ho mai rimorchiato. Lo trovavo noioso e faticoso. Presuntuosamente mi ritenevo un tipo interessante… Un imbranato intellettuale, insomma. Però con qualcuna funzionava.

Che musica ascoltavi, Stenio, da ragazzo?

Be’, quella della mia epoca, complessi, cantautori, italiani, brasiliani, Gilberto, Jobim, i francesi, Aznavour, Brel, Gainsbourg…E però anche, per via di cosa trovavo in casa, musica d’antan, da Cole Porter a Bing Crosby, da Edith Piaf a Nat King Cole…Ho sempre avuto un debole per il passato.

Sei nato a Roma, ma vivi a Milano da anni; come mai sei scappato dalla Capitale? Non ti sentivi compreso e apprezzato?

Giornalisticamente parlando, gli anni Settanta, in quanto molto ideologizzati, erano anche molto chiusi: se non facevi parte del mainstream imperante non avevi spazio. A Roma non avevo grandi possibilità, ho fatto dieci anni e passa di abusivato… Enzo Erra, un giornalista e un mentore a cui devo molto, e che allora era il notista politico di La notte, che, come sai, aveva la sua sede a Milano, mi segnalò a Livio Caputo, che ne era il direttore. Gli piacqui e mi assunse. Gli costavo come un praticante, ma ero già un redattore fatto e finito…. Così è cominciata la mia storia con Milano che, a distanza di decenni, ormai è la mia città.

Spesso sento dire o leggo stronzate come questa: in Italia, la cultura di Destra non ha attecchito perché il potere sinistrorso è stato troppo invadente e soffocante. Non pensi, piuttosto, che l’intellighenzia destroide sia stata, negli anni, semplicemente mediocre e sterile, a parte qualche lodevole eccezione?

E’ una domanda che necessita una risposta complessa. C’è stata, almeno fino agli anni Ottanta, un’egemonia culturale della sinistra, così come una rarefazione della destra. Se guardi alla carta stampata, è un percorso esemplare: fiorente ancora sino a metà anni Sessanta, poi il deserto…. Era in atto un cambio di quadro politico, economico, sociale, con tutto ciò che questo comportava, e con esso il venir meno di spazi di indipendenza anche professionale. In parole povere, non avevi acque in cui nuotare, mentre sul fronte opposto avevi gli oceani…Tu sei giovane e certe cose non le hai vissute, ma un giornalista di sinistra o di estrema sinistra, Unità, Manifesto, Lotta continua, Paese sera, Quotidiano dei lavoratori, l’elenco è infinito, che cominciava lì a lavorare, qualche anno dopo te lo ritrovavi nei giornaloni borghesi, tutti , nessuno escluso…Fungevano da ascensori social-professionali, insomma, il che però te la dice lunga sia sulla qualità e tenuta intellettuale di quella sinistra, sia sulla vigliaccheria  dell’imprenditoria cosiddetta moderata. Tutto ciò sull’altro versante era impossibile: nascevi e morivi in quel laghetto, a meno di non rifarti completamente la verginità, scrivendo l’esatto contrario di quello che pensavi…Alla lunga, sei condannato alla sterilità, è un po’ la logica del maso chiuso, dove ci si scopa fra consanguinei e il risultato sono figli scemi….Poi, sicuramente c’è stato anche chi, crogiolandosi nell’idea di vivere in un ghetto, ha un po’ goduto delle delizie della persecuzione.

Addirittura, persecuzione? Non stai esagerando, Stenio? Chi sarebbero i persecutori?

Non mi sono spiegato. Intendevo il masochismo di chi gode di quello stato, non ne può fare a meno, gli piace, gli evita di interrogarsi su sé stesso.

Semmai ve ne siano, chi sono, oggi, gli intellettuali di destra degni di essere letti e studiati?

Franco Cardini, Marco Tarchi, Giuseppe Conte, Stefano Zecchi, il meglio della storiografia, della politologia della poesia e dell’estetica…Anche se definirli di destra è riduttivo.

E del passato?

Macchia, Praz, accademici e fior di intellettuali, che, di certo, non possono essere incasellati nella cultura di sinistra e progressista.

Un po’ pochi, però, Stenio, non trovi?

Senti, se vuoi ti faccio un elenco  lungo quanto le pagine gialle…Piovene e Comisso, Ungaretti e Cardarelli, Sironi, Parise e Buzzati, Malaparte e Papini, Longanesi e Ansaldo, Berto, Guareschi, Tomasi di Lampedusa, Alianello, Pirandello… Guarda che, sino al secondo dopoguerra, la cultura stava lì…Detto ciò, trovo stucchevole questa contrapposizione…La realtà è che esiste da almeno un trentennio a questa parta un conformismo ideologico, un politicamente corretto, se vuoi che gestisce il potere culturale: è banale e rassicurante, vellica lo spirito del tempo, funziona per cooptazione, assicura una rendita di posizione, esclude dal suo orizzonte ogni pensiero diverso, su cui comunque getta un anatema morale, meglio, moralistico. È la cappa del Bene e chi non ne fa parte è il Male.

Quali sono stati gli intellettuali di sinistra che hanno esercitato un ascendente nei tuoi confronti?

Da giovane mi piaceva molto Elio Vittorini, per via del suo interventismo culturale e poi perché era un hemingwayano. Però, se scavavi un po’ più a fondo ti accorgevi che Vittorini, che era stato un “fascista di sinistra”, aveva poi riadattato la sua biografia e la sua opera con un’operazione di ripulitura ideologica sconcertante. È uno dei casi più interessanti, e più tragici, di camaleontismo intellettuale. Poi ti direi Gramsci, Trotskij, che fra l’altro è un superbo scrittore e, più in generale, quella sinistra rivoluzionaria più o meno tradita, i Victor Serge, i Souvarine…

Chi sono, invece, per te, gli scrittori italiani sopravvalutati dal grande circo editoriale italiano?

Sicuramente, uno dei più sopravvalutati è Camilleri, di cui giudico completamente artificioso e fastidioso il linguaggio. L’agrigentino era molto più coinvolgente come narratore orale che come scrittore, perché, a mio avviso, era un grande affabulatore. E neanche Italo Calvino mi ha particolarmente intrigato, anzi. Uno scrittore, poi, tanto sottovalutato oggi quanto sopravvalutato ieri, è, sicuramente, Moravia.

Nei suoi anni d’oro, Moravia era intoccabile. Ricordo benissimo il libro di Sergio Saviane, “Moravia Desnudo”…

Hai ragione: intoccabile. Però, a essere onesti intellettualmente, il Moravia di Gli indifferenti, Agostino, La noia, è di statura europea novecentesca. Comunque, sulla narrativa italiana contemporanea, sui suoi esponenti, resto fedele al motto di Flaiano: “Non l’ho letto e non mi piace”.

Federico Zeri sosteneva che quando si presentavano i libri, con il pubblico presente, era una noia mortale: erano un darsi di gomito, ammiccare, elogiare. Come mai stampa, editoria, autori, anziché fare a “cazzotti”, va a braccetto, fottendosene di chi deve leggere? Ti senti anche tu parte di questo atteggiamento pilatesco e fru-fru?

Non so risponderti, perché non vado alle presentazioni. Più in generale, c’è una consorteria intellettuale che è un po’ come una massoneria. Si fa mutuo soccorso. Io ti premio, tu mi pubblichi, tu mi elogi e io ti faccio avere un contrattino, cose così…

So che, per te, Buscaroli è stato un punto di riferimento importante. Cosa non ti piaceva di lui: la sua faziosità e il suo essere profondamente fascista?

Piero Buscaroli era un personaggio difficile, perché umorale e, quindi, da maneggiare con cura. Nonostante il divario anagrafico (aveva vent’anni più di me) e poca frequentazione, abitavamo in città diverse, nei suoi confronti ho un debito di riconoscenza perché, nei limiti delle sue possibilità, ha sempre cercato di darmi una mano, soprattutto agli inizi della mia carriera giornalistica. Quando sono diventato responsabile delle pagine culturali del Giornale, ho cercato di ripagare il mio debito. Era finito in un cono d’ombra e l’ho rimesso in piena luce. Lo ritengo un grande scrittore, di respiro europeo.

Non reputavi insopportabile la sua faziosità, il suo essere fascistissimo.

Nella vicenda buscaroliana legata al fascismo, c’è una forte componente personale. Per dirne un solo elemento, il padre, latinista insigne, buttato in carcere a guerra finita, processato e poi morto appena uscito di galera…Quanto alla faziosità, un po’ tutta quella generazione era faziosa, da una parte e dall’altra, c’era stata una guerra civile…Inoltre, la faziosità è una caratteristica italiana: Guelfi e Ghibellini, una storia infinita.

Non pensi, anche tu, che il vero fuoriclasse del Giornale sia stato Enzo Bettiza, e non Indro Montanelli?

Bettiza di natura era uno scrittore, di memorialistica soprattutto, penso a Esilio. Nei romanzi è spesso fuori misura, per eccesso intendo. Non sono mai stato un fan di Montanelli. Penso che Malaparte gli sia stato superiore. La longevità gli ha consentito di “seppellire” sotto la sua penna chi avrebbe potuto fargli ombra, da Longanesi ad Ansaldo, a Malaparte, appunto. Detto questo resta un gigante: come Prezzolini aveva il dono della chiarezza, un cero spirito anarchico, il senso della frase. Infine, fondare Il Giornale, uscendo dal Corriere della Sera, non è stato un atto da poco.

Chi sbagliò, in quel frangente? Ottone o Montanelli?

Su Ottone ti devi leggere Via Solferino di Bettiza. Lì c’è tutto. Il paradosso è che, se ci pensi un attimo, Ottone ha comunque regalato a Montanelli una seconda giovinezza, gli ha impedito di passare da “venerato maestro” a “vecchio stronzo”…

Negli anni della sua direzione, cosa non sopportavi di Vittorio Feltri?

Non posso parlare male di Feltri: mi ha assunto due volte e la prima, ai tempi dell’Europeo, gli è anche costata non poca fatica. Il comitato di redazione che raggruppava tutte le testate, la cosiddetta “cupola”, andava in giro per la Rizzoli dicendo che avevo fondato Ordine nuovo, il che vuol dire che a dieci anni ero già l’uomo nero…Quello che mi è sempre piaciuto di Feltri è che, essendo un fuoriclasse, non ha mai temuto la concorrenza. Ti lasciava molta libertà, di dava la possibilità di crescere. Si dice che Montanelli avesse di queste gelosie, Vittorio non he ha mai avute, anzi.

Facci mi ha detto che aveva una visione mercatistica del giornale…

Mah, un occhio al mercato, ovvero al lettore, se dirigi un quotidiano lo devi comunque dare. Ti racconto un aneddoto: quando Feltri arrivò al Giornale andò a chiedere consiglio a Gaetano Afeltra su che tipo di quotidiano avrebbe dovuto fare. Afeltra gli rispose: ‘ L’hai da spurca’ e mmerda”…

Hai mai avvertito, nei tuoi anni al Giornale, disagio, imbarazzo, nel lavorare per un giornale così votato a cogliere e intercettare gli umori della massa, anche un po’ grevi, tu, invece, così snob?

Be’, gli “umori della massa”, detto così è un po’ forte…Il Giornale non è mai stato di massa, era un quotidiano di opinione, aveva lettori molto particolari. Dirigendo le pagine della cultura, poi, vivevo una posizione più defilata, privilegiata, direi. Quando Feltri mi diede quel ruolo, mi lasciò mano libera e io sapevo, come del resto sapeva lui, che non avevamo i mezzi, redattori, collaboratori, per fare la concorrenza alle pagine e ai supplementi culturali di Repubblica, Corriere, Stampa…Dovevamo fare qualcosa di diverso, non potevamo seguire le mode o le attualità culturali…

Che, all’epoca, quali erano?

Il pensiero debole, La Tv delle ragazze, i libri in stile Cento colpi di spazzola, il mainstream di un certo potere culturale. Al Giornale cercai di fare un tipo di informazione, di controinformazione, se vuoi, più consona alle mie corde.

E quali sarebbero le tue corde, sentiamo!

Una cura per il racconto giornalistico e la scrittura, il recupero di autori dimenticati e/o maledetti, un’estetica del viaggio, un revisionismo storico colto e intelligente, una certa sprezzatura…

Qual è stato il tuo più grande abbaglio giornalistico?

Non penso di averne mai avuti perché non sono mai stato un giornalista da scoop e, poi, perché, avendo coscienza, ho sempre verificato, prima di pubblicare quello che mi veniva raccontato.

Cosa pensi dei terzisti? Qualcuno sostiene siano stati una iattura per il nostro malandato giornalismo…

Ma sai, se il terzista è tale nella logica del pesce in barile, quel qualcuno ha ragione. Se c’è chi, invece di schierarsi a prescindere vuole capire e, se è il caso, andare controcorrente, è diverso. Ti confesso che sono un po’ stufo degli indignati speciali…

Per diversi anni, sei stato responsabile delle pagine culturali del Giornale: chi erano gli editori che telefonavano di più per fare pressioni sui loro autori?

Le pagine culturali dell’ultimo Giornale montanelliano erano un po’ il tè alle cinque, un club privé, se vuoi. All’inizio gli uffici stampa cercarono di capire se fossero arrivati i barbari oppure no: intanto era anche uscita La Voce, il campo insomma era affollato. Piano piano, tutto è rientrato nella normalità.

E gli autori che più soffrivano per le vostre critiche?

C’è una cosa che racconta spesso Luca Doninelli: io gli avevo affidato una rubrica di stroncature. Stroncò Antonio Tabucchi e questi, in modo permaloso, se ne adontò a un punto tale che alla fine chi ci rimase più male fu proprio Doninelli, che è un ragazzo di cuore oltre a essere un eccellente scrittore…Più in generale, i vari Bobbio, Galimberti, Vattimo, Siciliano furono presi di mira…Ti confesso però che nel tempo mi sono reso conto che fare polemica mi interessava sempre di meno e, di conseguenza, anche al Giornale le ho messo un freno. E’ inutile, oltre che faticosa.

Non volevi inimicarti nessuno, quindi? Volevi fare delle pagine per nulla corsare…

Ma no, è che mi annoia il personalismo, il narcisismo d’autore, l’io ombelicale, quello che sta sempre con il dito alzato contro il Nemico di turno, il giornalismo in stile avvoltoi.

Ti è mai capitato, invece, di doverti ricredere su un autore che, inizialmente, reputavi mediocre?

Rovescerei la domanda…Ci sono scrittori che, pur restando di assoluto valore, Hemingway, per esempio, nel rileggerli a distanza di anni ne rilevi i segni di debolezza. Vale anche per Nabokov, perfino per Stendhal…Detto ciò, parliamo sempre di giganti!

Il più grande bluff editoriale?

Baricco, probabilmente. Un bravo artigiano del linguaggio che accarezza troppo il lettore. Una prosa falsamente rivoluzionaria, ammiccante, “piaciona”…

Qual è stato il libro più brutto che hai scritto?

Più che brutto, direi il meno compreso… “Parlo di Da Parigi a Gerusalemme” che, anche a causa delle difficoltà del suo editore subito dopo l’uscita, non ebbe molta fortuna. Probabilmente anche il soggetto – Chateaubriand- non era troppo popolare.

Mettendoti dinanzi ad un foglio di carta, hai mai pensato che i tuoi libri potessero non interessare e che scrivere fosse inutile?

Sempre! Se sei un lettore di Céline, di Balzac, di Proust, cosa vuoi scrivere? Il paragone ti schiaccia…Ma la scrittura, per quanto faticosa, ti dà un piacere in sé…E poi, non so fare altro e in fondo si vive anche di piccole illusioni.

Filippo Facci, in una recente intervista, mi ha detto che tra Ferrara, Feltri, Sallusti e Belpietro, il meno talentuoso è proprio quest’ultimo. Condividi? E perché?

Ferrara e Feltri sono due fuori classe, fuori categoria…Belpietro e Sallusti li metterei sullo stesso piano, anche se la scrittura del primo mi sembra più rifinita rispetto a quella del secondo. Siccome molto probabilmente Sallusti sarà il mio prossimo direttore, per evitare che non mi faccia più scrivere, ti dico che, come cronista, il migliore è lui!

Perché reputi i libri di Scalfari modesti?

Perché lo sono. La sua narrativa non la prendo nemmeno in considerazione, la parte filosofica mi è sempre parsa raccogliticcia…La produzione giornalistica è modesta, paragonata a Montanelli &C.. Detto questo, è stato il più grande direttore dell’ultimo mezzo secolo: ha inventato uno stile di giornale, ne ha plasmato persino i lettori.

Neanche la “Sera Andavamo in via Veneto?

Ma no, lasciamo perdere…! E’ un racconto falso e compiaciuto dell’Italia, senza profondità e con un ego smisurato.

Hai mai ambito a lavorare nella Repubblica scalfariana, quella degli anni d’oro, però?

I miei riferimenti giornalistici non sono mai stati legati ai grandi giornali e quindi a Repubblica o al Corriere…Da ragazzo vedevo come mio approdo naturale il Roma o Il Giornale d’Italia di Alberto Giovannini, il Tempo di Renato Angiolillo…. Questo ti fa capire quanto fossi sprovveduto e quanto poco giornalista…

Su Dissipatio ti hanno paragonato a Jep Gambardella: non pensi abbiano scritto una demenziale sciocchezza?

Sì, lo dissi, anche se non con questi termini, a chi mi fece questo ritratto, che è poi un amico che stimo e a cui voglio bene. Che ti devo dire? Ognuno si fa le idee che ritiene più giuste.

E a chi ti paragoneresti, con la tua sartoria, i tuoi baffi e il tuo modus vivendi?

Detto così sembro un negozio di tessuti! A chi vuoi che mi paragoni? Sono quello che sono ed è già faticoso così.

Hai detto, non molto tempo fa, che partecipare alla rinascita della Sette Colori ti ha regalato gioie e amarezze. Eccomi: parlami delle amarezze! Cos’è che ti ha amareggiato?

La Settecolori nasce per volontà di Pino Grillo, mio carissimo amico fino alla sua morte prematura. Suo figlio Manuel ne ha allora preso il posto e continuato l’attività editoriale. Per me la storia, il marchio, il catalogo sono loro, li identifico con loro. Un paio d’anni fa c’è stata la possibilità di rafforzarla economicamente: io e Manuel, abbiamo fondato una nuova società, inizialmente insieme con un paio di amici-soci, altri poi si sono aggiunti Nel tempo sono subentrate gelosie e invidie legate al fatto che le competenze sembravano contare meno dei quattrini che alcuni  soci avevano immesso nella società e, visto il successo che la Settecolori andava riscuotendo, c’è stato chi ha cominciato a pensare che fosse una casa editrice da scalare, semplicemente, indipendentemente dal nome, dalla storia, da chi materialmente e intellettualmente la faceva. Tieni presente che io non mi sono mai preoccupato di sapere quante azioni avessi e a cosa corrispondessero, non ho mai preso né preteso una lira…Era un’avventura in amicizia. Quando ho preso atto che non era più così, mi sono sfilato e lo stesso ha fatto Manuel Grillo. Abbiamo dato vita a una nuova società, mantenendo però il nome della casa editrice, che è tale da più di quarant’anni: l’ha scelto Pino Grillo, l’ha mantenuto Manuel Grillo. Siamo usciti con un primo libro, Il disastro di Pavia, di Jean Giono, a luglio faremo I Maia di Eça de Queiroz e poi seguiranno gli altri. Essersi Illusi sulle amicizie, è doloroso.

Dove volete arrivare con la Sette Colori? Scalzare il primato dell’Adelphi? Ambisci, da direttore editoriale, ad essere il nuovo Calasso?

Cerchiamo di fare un’editoria all’insegna della riscoperta di autori dimenticati o che ci piace far scoprire, e bella dal punto di vista grafico. Qualcosa di diverso dall’usa e getta che oggi è un po’ la regola generale. Però, non scherziamo, non possiamo paragonarci a un gigante come Adelphi.

Che talento ruberesti, se potessi, a Calasso?

Il milieu, la biblioteca e le amicizie di famiglia.

Quali libri, finora pubblicati dalla Sette Colori, hanno fatto flop?

Flop veri e propri nessuno. Lentamente continuiamo a vendere tutti i libri del catalogo. Quello che fatica di più è Volapié, di Max David, il primo libro di un italiano sulla tauromachia…Già il tema fa capire il perché. Ma è un libro straordinario, anche dal punto di vista della scrittura.

Il tuo nome è sconosciuto ai più. Ti ha mai fatto soffrire l’emarginazione culturale di cui sei stato vittima?

Tutto nella vita si pareggia, penso. Se vuoi la notorietà, c’è sempre un prezzo da pagare. A me interessava conservare sempre e comunque una certa dignità: umana, professionale. Sono comunque soddisfatto di ciò che giornalisticamente ho combinato.

Se non erro, non hai figli. Mero accidente della vita o totale incapacità ed egoismo da parte tua?

Non è successo. Pazienza.

Nella tua vita, hanno contato più le donne o i libri? Perché?

I libri ci sono sempre. Li puoi aprire e chiudere a tuo piacimento. E’ una compagnia silenziosa, ma profonda. Le donne comportano un confronto costante, delle attenzioni, un prendere atto anche di quelli che sono i loro interessi e i loro desideri. E’ tutto molto più faticoso, forse più appagante. Tieni presente che non sono un seduttore seriale, ma un lettore indefesso e quindi…

Per Mughini, la donna fatale è stata la Bardot; per te, invece?

Giampiero è bravissimo a idealizzare, io no. Una donna che mi piaceva molto era Lea Massari, un’altra Anouk Aimé, un’altra Jane Birkin, un’altra Kate Moss. Se vuoi, idealizzo di volta in volta…

Hai dissipato più soldi o tempo?

Tutt’e due.

Da dove nasce la tua timidezza? Hai paura di affrontare il mondo? Ti senti fragile e insicuro dinanzi agli altri?

Sono sempre stata una persona solitaria, consapevole di non sapere tante cose, e con la volontà di ascoltare molto per imparare molto. La mia timidezza è di natura scontrosa e insieme orgogliosa: le mie origini sono metà calabresi e metà sarde, e questo penso abbia inciso. C’è anche chi la scambia per superbia…

Parli spesso di solitudine. Non pensi che, alla fine, bearsene troppo risulti stucchevole e noioso?

Sono d’accordo. Bisogna stare attenti a non farne un cliché. Io però non me ne beo. La mia è una constatazione.

Pensi che la vita ti abbia regalato quello che meritavi?

Non lo so! Con il senno di poi, facendo un po’ di calcoli, avrei potuto avere una carriera più ricca, quanto a riconoscimenti, ne abbiamo già parlato, ma va bene così.

Ti eccitano ancora le donne? O ti lasciano ormai indifferente?

Mi piacciono ancora, ma sono purtroppo entrato in un’età in cui sono loro a non accorgersi di me.

Ti fa soffrire essere diventato invisibile ai loro occhi?

Sai, penso che questo sia uno dei problemi irrisolti legati alla vecchiaia: internamente sei sempre lo stesso, ma da alcuni particolari ti accorgi che stai diventano invisibile: non solo alle donne, ai giovani, maschi e femmine che siano, a chi comunque e sempre ha meno anni di te e su questo non ci puoi fare nulla, a meno che uno non voglia diventare una macchietta. Il giovanilismo non fa per me…

Quali sarebbero questi particolari? Le rughe, gli acciacchi, i capelli bianchi?

Ti guardi e non ti piaci. Ti rivedi in foto e non ti riconosci.

Ti fa paura essere vecchio…?

Paura, no! Mi rompe i coglioni, perché ti rendi conto che il tuo orizzonte si restringe. Cerco di pensarci il meno possibile.

Vorresti morire con una bella donna al fianco o in uno dei posti abitati da Patrick Leigh Fermor?

Innanzitutto, non vorrei morire. Certo sarebbe bello avere una donna al mio fianco, su una bella isola. Ci sarebbe da capire, poi, che farci con una donna vicino…

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